3 mesi fa l’inizio di un incubo: la prima volta che ho pianto in zona rossa

Una settimana dopo. Tre mesi fa l’Italia iniziava il suo incubo. Tre mesi fa era passata una settimana da quando il tristemente famoso paziente 1, Mattia, arrivava a Codogno in ospedale per poi essere trasportato a Pavia in condizioni gravissime. Era passata una settimana da quando l’Italia era stata travolta dal coronavirus. Era in Cina prima, a Wuhan, in Italia poi a gennaio ma solo a Roma. Due turisti cinesi portati subito allo Spallanzani. Questione risolta.

Il 21 febbraio 2020 tutto cambia. Codogno, in Lombardia con tutta la zona del lodigiano, Vo’ Euganeo in Veneto. Focolai, prime paure, prime ansie, prime zone rosse. Tutto sotto controllo ci dicono ma non è così. Un mese dopo scopriremo che non è stato Mattia con la sua voglia di vivere, dalle maratone alle corse, al volontariato, a “infettare” una intera regione ma il maledetto coronavirus era in Italia da mesi. Mattia è stato salvato dall’intuizione di una anestesista che ci ha salvati tutti. Sono morte più di 30 mila persone in Italia ma se lei avesse seguito il protocollo, forse oggi parleremmo di ben altri numeri. Il protocollo che diceva di fare il tampone solo a chi era stato in Cina o aveva avuto contatti diretti con un cinese. Mattia aveva viaggiato in Italia si ma la Cina non era nella sua vita. Quell’intuizione ha cambiato tutto. Codogno zona rossa, il lodigiano zona rossa, Vo’ diventa zona rossa. E in Italia si inizia a scoprire che cosa significano termini come tampone, polmonite interstiziale, spuntano le prime introvabili mascherine, si corre al supermercato per fare incetta di amuchina. E da Codogno intanto, arrivano le prime immagini di come una città isolata, vive il suo dramma.

Ed è questa la prima volta in cui forse io e tanti altri come me, abbiamo iniziato a capire che stava succedendo davvero. Codogno diventa zona rossa, dieci giorni dopo l’Italia intera lo sarà in qualche modo ( anche se si parlerà di zona arancione). Famiglie divise, lacrime e solitudine con tanta paura, un nemico invisibile è arrivato e la guerra è iniziata. La prima volta in cui ho pianto: stavo guardando un servizio del Tg1. Giuseppe La Venia, che da lì a un mese e mezzo avrebbe raccontato tutto di Codogno, mostrava i parenti arrivare per portare acqua, generi di prima necessità, per salutare chi viveva dall’altra parte del confine. Il giornalista del Tg1 si avvicinava a raccontare le storie. Dava parola a un padre: “Mia figlia vive a Codogno da meno di un mese per lavoro, non conosce nessuno. Ho pensato di portarle delle cotolette impanate per la cena“.

Credo si sia capito perchè ho pianto. Un gesto così semplice, così genuino in una situazione surreale. Nessuno sapeva che cosa sarebbe successo, tutti avevano paura di essersi contagiati e di non saperlo. Era la fine del mese di febbraio e l’Italia ancora non aveva capito cosa stava succedendo; si pagheranno le conseguenze amare degli errori, della superficialità. Resteranno le lacrime, il dolore, la disperazione. Quella volta ho pianto per un padre che a metri di distanza salutava sua figlia. Non sapevo che da lì a breve, le lacrime da versare sarebbero state tante.

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